La Critica

Cosa dice la critica

Arnaldo Romani Brizzi

… In quella caligine che svapóra le linee, mutando i connotati alle città, svelandone l’essenza, il segreto dell’anima loro invisibile che, per incanto, non solo si concede allo sguardo, raccontandone l’aura, ma anche diviene la sostanza stessa di una ragione d’amore, l’unica possibile nell’andare con lo sguardo tra i luoghi del nostro vivere quotidiano.

Corrado Bonicatti ha dunque messo in atto, nei suoi attuali dipinti, un meccanismo in cui il gioco del rivelamento finisce con l’esprimere il duplice, possibile, senso della parola: togliere, ma anche collocare il velo…

Dalla presentazione al catalogo Mostra Personale: Interiorità e memoria Galleria Yanika – Roma, 1996


Claudio Strinati

…. “Bonicatti, però, rientra in quel novero di artisti le cui opere intendono fornire risposte a chi l’arte l’ama davvero.  C’è in lui la forza dell’intimità con il proprio osservatore che denota una delicatezza e una maestria cospicue. 

Il maestro vuole comunicare sul serio e vuole farlo attraversando il mondo che lo circonda con una energia e una discrezione che si confrontano e si scontrano costantemente in tutti i suoi quadri.  Ha un senso di dominio dell’immagine molto forte ma nel contempo è come se si ritraesse da un impatto troppo diretto e immediato.  Esprime veramente una componente filosofica e speculativa nel suo lavoro ma non ha altro scopo che quello della creazione.

Non pretende di teorizzare ma stimola come pochi l’attitudine all’analisi critica da parte di chi ne sia veramente dotato”.

Dalla prefazione alla monografia: “BONICATTI” De Luca Editori d’Arte, Roma – 2009.


Elisa Debenedetti

Corrado Bonicatti espone alcuni dipinti che rappresentano una sintesi del lavoro degli ultimi sei anni: si tratta di paesaggi a olio, che riproducono quasi sempre località deserte. Corrado però disegna e dipinge ad acquarello fin da bambino; ha iniziato a dodici o tredici anni, con il ritratto di un compagno di scuola. Sono trent’anni dunque che si dedica con costanza e studio alla pittura, tranne una pausa, tra il 1967 e ’73, dovuta forse a ragioni di vita.

Tra i sedici e i ventisei anni si situano, sempre più numerosi, i disegni. Noi sappiamo che intercala i paesaggi con ritratti-copie d’autore, qui non esposti, come la perfetta copia da Géricault di circa dieci anni fa. I motivi della sua pittura che per primi ci attirano sono costituiti da un senso di monotonia, un mondo interno intenso e personale, un’esperienza disegnativa quasi accademica.

Ma non basta: una ricerca di infinito, di spazio, di paesaggio vuoto e nostalgico, ci costringe a un tentativo di storicizzare questa pittura, agganciandoci a delle esperienze del passato: nel momento, per esempio, del graduale distacco e della reazione all’impressionismo e al naturalismo, quando, in Europa, le più avanzate correnti filosofiche e letteraria affiancavano e sostenevano le ricerche dei maggiori pittori e musicisti, tendenti a servirsi dell’oggetto solo come stimolo di profonde suggestioni interiori. Forse questo tuffo nel passato è in lui del tutto inconsapevole e nasce dall’esigenza, comune agli artisti più interessanti del nostro tempo, di riuscire a comunicare e a trasmettere contenuti non equivocabili in un mondo esternamente troppo crudele e internamente troppo pieno di solitudine e malinconia. L’unico modo di risolvere questa necessità di verità e chiarezza è quello di ricorrere a una sorta di sdoppiamento operato tra il piano dei dati reali e quello della coscienza. Attraverso un processo mnemonico, l’elemento naturale si trasforma, i contorni divengono meno evidenti e il cromatismo più sfumato. Si giunge a una forma di evanescenza e impalpabilità, quasi un dilagare dei colori in confini tanto apparentemente nitidi e precisi, quanto inesistenti. Paesaggi della memoria, laghi di colori chiari e luminosi, idee-immagini. Questa pittura consiste nel rappresentarci dettagliatamente tutto il percorso, dal momento iniziale del paesaggio nella sua chiarezza formale, fino al sua disgregarsi e dilagare sulla tela per zone di colore puro, quasi a ribadire che non vi è nulla di immediato nell’opera d’arte, che deve contenere un senso di serenità assoluta, raggiunto mediante una lunga meditazione sul problema dell’espressione. La tendenza quasi mistica di far convivere questo dualismo di rappresentazione – le immagini prima e dopo la loro trasformazione, le immagini visibili e l’invisibile che può affiorare dal loro aspetto – corrisponde a un’ambivalenza di Bonicatti, e per capirlo meglio nella sua realtà umana, che è anche la sua realtà di artista, giova forse ricordare la sua esperienza di giovane musicista, quando, oltre a far parte di un noto gruppo musicale, tentava, con successo, le strade della composizione, cioè di persona che astrae, che va al di là, in un mondo invisibile, di sogno, come i suoi paesaggi ideali. Questi paesaggi ideali paiono non rientrare in nessun gruppo o scuola, né si possono etichettare in alcun modo: tuttavia se una corrente espressiva in lui si può individuare, è proprio quella, oggi molto in voga, dell’astrattismo romantico, che si riconnette alle esperienze della pittura nordica europea.

Presentazione al catalogo Mostra Personale:
Il fascino inquietante della solitudine

Galleria IL LUOGO, Via della Lungara, 15 – Roma, 1986


Enzo Bilardello

Il Corriere della Sera, 26 ottobre 1991

Bonicatti, però, non cerca la precisione quanto la magia, l’evocatività di un luogo che, pur noto, Trinità dei Monti o Ponte Mollo, viene trasfigurato in qualcosa che dal bianco lattiginoso s’impressiona sotto i nostri occhi con una delicata tessitura di pennello 


Presentazione al volume CINQUANTA PITTORI PER ROMA NEL 2000
Collezione BNL, Chiostro del Bramante – Roma, 2000

…La stessa Sinagoga è vista da Corrado Bonicatti con la sensibilità di un Corot dei nostri giorni. L’artista comprende nella veduta lo scorrere del Tevere, in una sinfonia di grigi e di bruni ben orchestrati, ma che riportano il monumento saldamente nella cultura occidentale.


Claudio Strinati

Dalla prefazione alla monografia: “BONICATTI” De Luca Editori d’Arte, Roma – 2009.

…. “Bonicatti, però, rientra in quel novero di artisti le cui opere intendono fornire risposte a chi l’arte l’ama davvero.  C’è in lui la forza dell’intimità con il proprio osservatore che denota una delicatezza e una maestria cospicue. 

Il maestro vuole comunicare sul serio e vuole farlo attraversando il mondo che lo circonda con una energia e una discrezione che si confrontano e si scontrano costantemente in tutti i suoi quadri.  Ha un senso di dominio dell’immagine molto forte ma nel contempo è come se si ritraesse da un impatto troppo diretto e immediato.  Esprime veramente una componente filosofica e speculativa nel suo lavoro ma non ha altro scopo che quello della creazione.

Non pretende di teorizzare ma stimola come pochi l’attitudine all’analisi critica da parte di chi ne sia veramente dotato”.


Federica Di Castro

Presentazione al catalogo della Mostra:
Project against Apartheid

Roma, 1987

E’ il sogno dell’artista che si avvicina oggi nuovamente all’immagine raccolta dalla natura, quello di avere con questa una relazione integra, per nulla inquinata da precedenti naturalistici. Di liberare il proprio animo da residui di credito a un reale denso di verità storica e muovere verso la virtualità dell’oggetto dipinto. La pittura è di per se stessa l’unica depositaria di verità in quanto in essa natura e invenzione si sposano, si confondono.

I quadri di Corrado Bonicatti, qui esposti, ampliano i succitati concetti, enunciando una vera e propria poetica. E’ parte di questa poetica il dichiarato ripristino del “genere”, nella fattispecie quello del paesaggio. In qualità di paesaggista Bonicatti raccoglie, d’emblee, impressioni e ricordi in disegni, note, schizzi.

Ma il quadro è realizzato a studio, nella memoria di certe luci, di certi toni e di molte emozioni distillate nel tempo. La pittura, quasi sempre ad olio, è molto limpida, tanto da permettere di ignorare le trasparenze, evidenziando piuttosto linee di orizzonte, pmbabili senti-menti dello scorrere dcl tempo. Così la piccola isola, lo Scoglio, diviene la “cosa” galleggiante tra cielo e mare che non si separano se non per farla emergere. Isola leggera, oggetto di un paesaggio senza confini di tono o di luce, ad essa lo sguardo si aggrappa per non smarrirsi nella visione. Mentre il letto di fiume che si apre verso lo spettatore con i suoi argini densi di colori e di segni, appartiene ad una visione misteriosa, fatta di una prospettiva frontale cui lo sguardo accede dall’alto e che tuttavia non riesce a dominare appieno. Qual è l’elemento che disorienta: la curiosa geometria del paesaggio, o il SUO clima evocativo, o il suo singolare eppur sostanziale rapporto con il reale, l’autentico, il vissuto? O è ancora la sua probità, il suo veritiero incanto, il suo riconoscersi nella natura per ostacolare ogni ingannevole presenza al simbolo?


Giorgio Agnisola

Dalla presentazione al catalogo della mostra “La parola dipinta”

Museo Emilio Greco, Sabaudia – 2010.

…. “La suggestiva, intensa pittura di Corrado Bonicatti vibra di tensioni nascoste, di misteri riflessi nella bellezza di una natura silenziosa e atemporale.

Lo spazio rappresentato è distante, quasi irraggiungibile, isolato e riflesso magicamente nel suo doppio, come in uno specchio d’acqua immobile e senza tempo.  Si tratta di uno specchio interiore, psichico – il doppio della realtà fisica, ma anche il doppio della coscienza spirituale – in cui la vita si ferma e si consuma”.


Giorgio Di Genova

Dal volume Storia dell’Arte italiana del ’900

Edizioni Bora – Bologna, 2009

…. “Che i paesaggi di Corrado siano calati in un’aura di mistero, frutto di memorie personali che creano lontananze visive e spaziali, è indubbio.
E ciò li rende “paesaggi dell’anima” ma di un’anima che riflette su se stessa ossia sul complicato rapporto dialettico tra realtà ed esistenza, tra vista e memoria, tra oggettività e soggettività, tutti “doppi” che il pittore romano, dopo le esperienze attuate nell’ambito di una radicale contrazione dell’ottica ottenuta per sottrazione di dettagli, ha spostato nella doublure del rispecchiamento sull’acqua di edifici e caseggiati.

…. Un temperamento incardinato su un lirismo, per certi versi fatale, come possono esserlo certi tratti fisiognomici con cui nasciamo, un lirismo che contestualmente si sublima, si esalta e si placa in una sorta di metafisica pax interiore, ben espressa nella convivenza della concretezza delle forme assolute dei caseggiati, talora esaltanti impositivamente la loro elementare plasticità, e della labilità dei loro riflessi nello specchio d’acqua da cui spesso s’ergono, riflessi capovolti che appunto capovolgono ogni certezza esistenziale e mentale, rimettendola poeticamente in discussione”.


Marco Di Capua

Dalla presentazione al catalogo Mostra Personale:
Corrado Bonicatti – Isolari

oGalleria Forni – Bologna, 2001

“…se fantastica è l’invenzione dell’Isolario, essa è pur sempre l’invenzione di un disegnatore geometrizzante di spazi, un uomo abituato a pensare il mondo secondo linee e angoli di platonica purità”.
(Giorgio Manganelli, Salons).

  Isolario è il titolo di un libro scritto, nel 1528, da Benedetto Bordone. Chi fosse costui e se c’entrasse qualcosa con Paris, non si sa, né Manganelli lo spiega, ma Isolario, il tuo nome è stupendo, uno potrebbe dire. Significa: catalogo delle isole. Fu stampato a Venezia. La città da cui Corrado Bonicatti ha derivato la sua prima, indimenticata, equorea ispirazione, quando si ritrovò davanti a una chiesa sconsacrata, specchiata, rifranta, incerta se essere un’emanazione del cielo o dell’acqua. ”Tratto di terra emersa circondata da ogni parte dalle acque del mare, di un lago, di un fiume”. È ciò che nel vocabolario segue alla parola isola. Ma anche, ti puoi sentire come un’isola, per esempio, il che sta per “sentirsi soli”. E ancora (intanto tu, lettore paziente, continua pure a gettare un occhio ai quadri di Bonicatti): ”area rialzata, non accessibile ai veicoli, nel mezzo di una carreggiata, di un incrocio stradale”. Dopo ci sono i significati delle parole ”isolamento”, “isolare”, “isolato”, dove si insiste parecchio su espressioni come ”separare”, “staccarsi”, “ritirarsi”… “Fare il vuoto intorno”.

  Ciò varrebbe per una spiegazione definitiva, perfetta. Questa presentazione basterebbe. Sono preso infatti dalla stessa tentazione che anni fa afferrò Vittorio Sgarbi, quella di far corrispondere alla laconicità, alla non eloquenza dei quadri di Bonicatti una stenografica sequenza di parole, tipo: acqua-terra-cielo, variata e diversamente ordinata per un’intera pagina. Perché il nostro pittore, questo collezionista di spoglie architettoniche, utilizza il paesaggio come una via d’accesso al vuoto, al nulla. E all’entrata, ai cancelli del vuoto qualsiasi nostra parola ingombra, diventa vana. Sotto lo sguardo di Bonicatti – non clamoroso ma radicale, aggiungerebbe benissimo Maria Teresa Benedetti – cade solitamente una terra vasta e disabitata, sottoposta a un lavoro di semplificazione e di scarnimento condotto ancora più in là, fino all’indistinto, a quell’identica, monotona sostanza che conforma il mondo. Nessun rigoglio. Nessun movimento. Nessuna varietà delle cose. Eppure questa desolazione non respinge, ma cattura. Somiglia all’acme di un tirocinio Zen, di un’orientaIe ricerca di pace, di un annientamento dell’ansia.

  Mentre vive in agglomerati e termitai sempre più intasati e invasati l’uomo sogna eremi. È naturale, ti dici. Ci sarebbe perfino un che di vendicativo, di biblicamente punitivo, appena mitigato dall’ironia, in Bonicatti: di fronte alla bruttezza, alla massificazione, davanti alla moltiplicazione dell’orrido egli reagisce con un’alluvione. Contempla solo quelle parti di terra non completamente allagate. Quelle risparmiate, che simili ad Afroditi sembrano rinate dalle acque. Afroditi acefale, mancanti di alcune parti, magari. Oppure combinate con elementi diversi, capricciosamente, benché con quale infallibile senso dell’armonia essi ti appaiano trasportati e assemblati dal caso e dalle correnti, oppure dai ricordi o da qualche fantasticheria, ma insomma libere, senza più il contesto che abitualmente le accoglieva, e le imprigionava. Nuovamente e stranamente pure, per questo. Ci si ricorderà come in “All’ombra delle fanciulle in fiore” Proust spinga il Narratore davanti alla chiesa di Balbec quasi solo allo scopo di deluderne l’attesa, al cospetto di quella Vergine del portico che, ammirata in tante riproduzioni come immagine intatta, ideale, ”inaccessibile alle vicissitudini”, ora, povera pietra ricoperta dalla stessa fuliggine delle case e delle strade, si contendeva lo spazio con un manifesto elettorale, ”incatenata alla piazza, inseparabile dallo sbocco del corso, incapace di sfuggire agli sguardi del caffè…”.

  Sottratti a tutto, immagini pulite di tutto, questi edifici diventano dunque escogitazioni della mente. Ma senza stravaganze inutili, senza bizzarrie ornamentali. Qui, come una marea crescente, si alza piuttosto la malìa di uno spaesamento. Una cosa soprattutto ci colpisce. Le spianate, i templi, i monumenti, certe case, queste costruzioni esemplari e dissimulate nella loro identità, contravvenendo alla loro natura indifferente, diventano testimoni e vestali di una specie di gioco. Come per un soprassalto d’infanzia. Regni lievi, silenziosamente in combutta tra loro, sabotano i duri regimi di spazio e di tempo, rompono quei vincoli, valicano quei confini. Come dichiarando continuamente la propria estraneità ai luoghi che adesso, temporaneamente, li ospitano. Estraneità dichiarata con mitezza, educatamente potresti dire, sopportata con pazienza.

  L’architettura dipinta è un miraggio. Qui è gettato uno sguardo che cerca casa. Che girovaga accanto a falde di città di futura fondazione. O riemerse ora da sabbie, polveri, acquazzoni immemoriali. Per Bonicatti i segni della civiltà sono simultaneamente fonte, origine semiperduta e indizi di chiaroveggenza. All’incrociarsi perfetto di passato e futuro potresti trovare questa San Gimignano che sembra proprio Manhattan tra qualche secolo, ma già guardata a ritroso, come caduta in rovina. Fanta-archeologia. Il presente appartiene ad altro. È occupato, riempito da altro. Il cuore di questi quadri, di queste cartografie della memoria, d’altra parte si definisce attraverso la distanza che Bonicatti frappone sempre fra sé e la cosa rappresentata. Sintomaticamente: crescendo, nelle sue versioni e fasi preparatorie, il dipinto si svuota. Una delle prove più evidenti e convincenti di come fotografie e immagini digitali e tutti gli sterminati clic che ticchettano oggi sul corpo del pianeta non possono mettere fine a quel modo speciale di guardare che guida il gesto della pittura, questa singolare combinazione di attenzione per l’essenziale e gusto per la lontananza.

  L’atmosfera è d’incertezza. E quale sarebbe l’ora in cui s’irradia questa luce diffusa e chiara, quasi esangue? Un’alba, una sera più luminosa delle altre? Un pomeriggio afoso, caliginoso, offuscato? Come Cervantes, Bonicatti occulta o stravolge segnaletiche, mette in dubbio l’evidenza dei luoghi: ”In un paese della Mancia di cui non voglio ricordarmi il nome…”. Ombre lunghe d’attesa, alla De Chirico per questi teatri di tramonti foschi, paesaggi tosti alla Balthus, un novecentismo di mura e prospettive come visto da chi parte, e perciò lo guarda rimpicciolirsi… Bonicatti, saggiamente, accudisce, si prende cura di certi suoi ricordi, ma lo fa obliquamente, ordendo attentamente e nel contempo straniando la trama, la rete metafisica che li cattura.

  Roma, a lacerti, a frammenti compare quasi sempre nei quadri di Bonicatti. Prelevata e come salvata, pezzo a pezzo. Portata altrove. Scontornata e girata, affinché tu quasi non la riconosca. Trasformata da città in santuario. È la Roma di un viandante, di un pellegrino come spesso siamo noi romani, le stiamo dentro e non le apparteniamo, la contempliamo così come faremmo con un pianeta colossale, dall’orbita sconosciuta, un pianeta indifferente. Esiste una specie di principe dei viandanti romani, un poeta, Valentino Zeichen, che a Villa Medici, l’edificio che Corrado mi dice di amare sopra ogni altro, ha dedicato versi assolutamente bonicatteschi: ”Se il risveglio di un ignoto/ congegno rinascimentale/ ruotasse l’Accademia di Francia/ di mezza circonferenza,/ quel muso di fortezza/ spaventerebbe il giardino,/ mentre la facciata interna/ verrebbe scambiata per/ un albergo/…”. Il libro è Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio. Non so se Corrado l’abbia letto. Il titolo gli piacerà senz’altro.


Maria Teresa Benedetti

Presentazione al catalogo Mostra Personale:
Arcana Lucis

Sala del Consiglio – Sabaudia
e Galleria Il Narciso – Roma, 1991

Fedele ad una scelta stilistica non clamorosa ma radicale, Corrado Bonicatti dipinge in una stanza chiara, invasa dalla luce, la stessa che inonda le sue tele ricche di finezze cromatiche e fluidità di riflessi, nelle cui vaste superfici si concentra un senso epifanico e insieme pudico della bellezza.

Insegue una visione semplificata con passione ed energia; sublima notazioni naturalistiche concentrandole nella parte inferiore della tela; il resto è occupato da cieli spalancati, boreali, che rimandano una sorta di stupefazione metafisica. Analizza ogni elemento ma fissa l’indispensabile; più che i singoli dati sono i climi, le atmosfere a sedurlo; gli basta talora un tratto a segnalare l’orizzonte che, più che indicazione del limite convenzionale dello sguardo, ci appare, attraverso lo spessore luminoso conferito allo spazio, come un invito a sentire la tensione verso l’infinito. Nulla è inventato o disposto arbitrariamente, anche se la tentazione a sottrarre sembra talora spingersi fino alla seduzione totalizzante dell’assenza, ribadita dalla completa elusione dell’elemento umano. Forse egli ricorda come Kandinski abbia affermato che nel rigore dell’astrazione non è un rifiuto della natura, ma una volontà di coglierne l’essenza, il suo palpito interiore sotto la pelle delle cose, e fino ad un certo punto ne registra le possibilità. Ma non compie lo strappo definitivo, non giunge mai ad eliminare totalmente il rapporto con le forme naturali. Così vediamo in opere come Mediterraneo II, III (1990), che rappresentano la punta più avanzata nel percorso verso l’astrazione, la linea azzurra e arancio del mare solcare orizzontalmente la tela e incrociarsi con la sabbia chiara. Anche se la fisionomia del paesaggio ha perduto ogni accento realistico e topografico, risultando come presenza estrema, dilatata.

Legato ad una concezione interiore del paesaggio, l’artista nutre l’ambizione a recuperare antiche tecniche (mestica le tele da solo, o le prepara con colla di coniglio, gesso di Bologna, o dipinge direttamente sulla tela grezza, della quale ama le asperità). Esegue piccoli schizzi a matita su carta, che poi rielabora in studio; non ha un rapporto diretto con il plein air, poiché i suoi sono paesaggi dell’interno, nati dalla meditazione, dal ricordo, filtrati da un personale fantasticare. Registrano una intensa riflessione sulla luce, attraverso un colore legato alla particolare capacità percettiva dell’artista. “Bisogna essere capaci di riflettere anche le cose più pure” aveva affermato Gide; nel tocco chiaro si concentra tutto il suo valore, si sente che il pittore ne ha pesato le risonanze. La gamma dei beige, degli azzurri, dei gialli, dei grigi è ricca di accordi e quando a tali toni discreti si mescola una nota più timbrata o dilaga l’ombra (ottenuta attraverso seppia, terra di Siena bruciata, blu oltremare), quest’ultima assume per contrasto tale valore, da far supporre che tutto sia stato preparato per esaltarne la densità.

La mostra esemplifica gli ultimi sei anni dell’attività dell’artista, proponendo grandi paesaggi dalla solarità piena e dolce, dai contorni allusivi, dalla luce morbida, che ci raccontano solitudine e grandiosità di panorami romani, dei laghi di Sabaudia, dei mari di Sardegna. Inoltre opere dalla skyline scura, emergente fra le brume, o dal controluce fondo in forte contrasto con il cielo; infine tele che rendono, attraverso il puro processo pittorico, l’assolutezza del rapporto con il mare.

“Vero poeta è colui che ispira” ha affermato Paul Valery; i quadri di Bonicatti stimolano a cercare, al di là dell’immagine, l’equivalente interiore della esperienza visiva.


Mimmo Coletti

La Nazione, 1° febbraio 1989

BONICATTI E L’INFINITO

Una pittura, quella di Corrado Bonicatti, che sembra affermare la sua esistenza attraverso il sospiro: languida, eterea, fatta di pulviscoli, luci ovattate, quiete armonie, silenzi dell’animo. Troppo? Non pare proprio, almeno a guardare la personale che l’artista romano ha allestito a palazzo dei Priori nelle sale a pianterreno che si chiamano ancora del Grifo e del Leone. Bonicatti, dunque. Opere di gran formato nella maggior parte, respiranti e generose, dove però il soggetto è ridotto all’essenziale in un processo di riduzione costante e a volte felice. Restano protagonisti il cielo ed il mare, lingue di terra, colline evanescenti e, forse, tanti ricordi rinserrati a pugno dentro un raffinato linguaggio. Bonicatti deve aver viaggiato molto e da ogni terra toccata, da ogni lido, da ogni angolo aver tratto un senso della vita, un accento particolare: sempre con una particolare intonazione che da un lato esclude la figura dall’altro sclerotizza il paesaggio con violenza gentile, dolci insistenze, rapide mosse. E la natura diventa ampio porto di meditazione, invito alla quiete e tanto altro ancora che ognuno,secondo il sentire personale, può trovare. Vittorio Sgarbi nella presentazione in catalogo fa un fugacissimo riferimento a Turner, parla di apparente semplicità, di intenzione di ripartire da zero, di rapporti con la musica (Bruckner soprattutto). Tutto giustissimo, altro ci mancherebbe. E questa “leggerezza dell’infinito” fa conoscere al pubblico perugino un pittore che sicuramente gioca con il figurativo ed in taluni frangenti sembra quasi disposto a superarlo.


Susanna Misiano

Presentazione al catalogo Mostra Personale:
Interiorità e memoria

Galleria Yanika – Roma, 1996

La ricerca pittorica di Corrado Bonicatti, richiama la poetica ottocentesca del “Sublime“, secondo cui nella rappresentazione della natura dovevano trapelare i simboli e le allusioni ad una dimensione spirituale, che travalicasse i semplici dati sensori. È la concezione romantica del paesaggio, inteso come “stato d’animo”, come categoria sentimentale, che subentra alla percezione del mondo quale principio ordinatore delle cose. L’artista allora, con i mezzi a sua disposizione voleva afferrare e trasporre sulla tela, il mistero della natura e quindi della vita, varcare cioè, i limiti imposti dai sensi, per partecipare all’intima essenza ed al significato ultimo del mondo circostante. In un’ottica storica ovviamente diversa e consapevole degli apporti culturali del ‘9OO, Bonicatti percepisce e fa suo in modo estremamente personale, il concetto di paesaggio come “luogo dell’anima”, come spazio del sogno e della fantasia, ma soprattutto come viaggio della memoria e del racconto autobiografico. Nella sua esperienza pittorica più che ventennale, l’artista ha coltivato, grazie ad un notevole bagaglio artistico e musicale una sensibilità “umbratile”, una predisposizione, evidente fin dall’inizio a considerare la pittura un “diario” intimo, un percorso a ritroso nel tempo. Il dato emergente e peculiare dei suoi paesaggi, specialmente quelli degli anni ’70 e ’80 è la malinconia, che non è dolore o consapevolezza dell’abbandono e della privazione, è piuttosto la sensazione di una felicità perduta, momentaneamente lontana. Nei lavori del periodo il riferimento realistico era evidente nella individuazione precisa dei luoghi, chiamati col loro nome, supportato da una stesura cromatica che alternava alle campiture nette e precise, un tessuto più evanescente secondo una grande padronanza della tecnica ad olio. Distese marine, alberi, spiagge, insenature, rese nei toni diafani degli azzurri, dei bianchi, dei grigi, mostravano tutta la loro verosimile pregnanza in una luminosità assoluta solare, senza mai scalfire l’immagine poetica che ne derivava. Nelle opere recenti è più esplicito il processo “astrattizzante”, sintetico: la natura è ridotta alla linea dell’orizzonte, rotta solo da piccole forme architettoniche, come nella serie I pensieri della sera (1992) ove la luce del crepuscolo si distende nelle tonalità calde e raffinate dell’ocra, dell’arancione. L’ambiente urbano e in particolare la forma architettonica del “caseggiato”, diventa protagonista silenzioso e discreto nelle opere del 1993-94 (Notturno, Perin del Vaga, Flaminio), ove puri volumi, oggetti dalle prospettive sfuggenti, sia sospesi in lagune immobili o affacciati in anguste piazze, alludono a luoghi del vissuto, “stanze” esterne, concrete nella definizione formale, ma impalpabili nel loro fascino evocativo. Ravvedo in queste “case” un riferimento alle periferie di Sironi, per la carica cromatica dei neri rischiarati dalla luce, per lo schema geometrico dei quadrati e dei rettangoli che occupano lo spazio del dipinto, diversa invece è la concezione di fondo: drammatica nel grande maestro, vicina aIl’”estraniamento” metafisico, evocativa in Bonicatti che vede in quegli angoli cittadini l’ambiente magico e misterioso dell’infanzia. L’oscurità che prevale in questi dipinti recenti è carica di magia: tenebre “luminose” avvolgono le case e le piazze, accarezzate da improvvisi bagliori che rendono la notte meno cupa e ossessiva, anzi momento della riflessione e della quiete. La tendenza alla schematizzazione e dunque ad una semplificazione formale, vicina all’astrazione, implica, nella fedeltà allo stile personale, un desiderio di cogliere la forza evocatrice della materia e della luce, al di là dell’esattezza rappresentativa e dei limiti della matrice figurativa. Corrado Bonicatti, da instancabile ricercatore, giunge attraverso il cammino della pittura, a soluzioni impreviste, frutto dell’alternarsi dei sentimenti, della stratificazione degli eventi, nel solco di una coerenza stilistica, che fa dell’immagine dipinta lo specchio dell’esistenza.


Vittorio Sgarbi

Presentazione al catalogo Mostra Personale:
La leggerezza dell’Infinito

Palazzo dei Priori – Perugia, 1989

Se a un artista è concesso di fare una pittura di apparente semplicità, come intenzione di ripartire da zero (non aveva intitolato Turner un suo celebre acquarello Inizio del colore?) sarà consentito a un critico di dire cose semplici,quasi tautologiche, e forse a tutti evidenti. Non cercheremo di sapere cosa si nasconde nella mente di Corrado Bonicatti; vediamo soltanto che egli dipinge limpidissimi paesaggi, candidissime marine all’alba, piccole insenature contro lo sfondo di monti trasparenti e lontani. Egli dipinge per sottolineare un limite, un ordine visivo che è dentro la stessa natura, il cui segno emblematico è la linea dell’orizzonte. Essa divide cielo e terra, colline e mare. Così dalla natura l’arte prende ordine, ritrova l’essenza del suo spazio. E l’artista umilmente non se ne discosta, riproduce il motivo con insistenza, in assorta contemplazione, come ripetendo all’infinito una preghiera. Ciò che non è consentito alla letteratura, neppure sotto specie di rarefatta poesia, è invece essenziale al pittore, il quale deve ripetere non soltanto il suo stile, ma anche le sue immagini d’affezione. E nessuno lo pratica più di Bonicatti. Essere semplici, ripetere lo stesso gesto non è monotonia o rigidezza, ma è convinzione che nelle cose e nei metodi ci sia un segreto che soltanto la ripetizione può svelare, come chi cerca il funzionamento di un meccanismo o una combinazione che consenta di aprire una porta sigillata. Ma cosa abbiamo, dunque, di fronte?

Alcuni limpidi, candidi, spatolati, ammorbiditi paesaggi, sotto una uniforme colata luminosa.

Non c’è certamente letteratura in queste immagini, bensì il lento avanzare, per gradi, della pittura, dal semplice al complesso; ma sempre entro un tema obbligato. E questa insistenza che, mentre dà saturazione, convince della spirituale autenticità di Bonicatti.E’ una ricerca per cui vale forse il rapporto con la musica; e non solo per l’evocazione delle immagini, che a un ritmo musicale comunque rimandano per essere traduzioni figurative di un semplificato schema astratto di linee orizzontali (in coerenza con le prove più antiche di Bonicatti, ai suoi sperimentali inizi).

La tautologia di Bonicatti ha qualche somiglianza con quella, sublime e candidamente religiosa, di Anton Bruckner, con i suoi grandi blocchi di temi continuamente ripetuti, in un apparente naturalismo e in una sostanziale, o spirituale, astrazione. Bruckner è infinitamente riconoscibile a partire da qualunque punto di una sua sinfonia, di struttura comunque circolare, mai rettilinea. Anche Bonicatti avanza ritornando sempre allo stesso punto con una coerenza d’impianto che è disciplina dell’immagine. Ma forse non è questa la sua intenzione; forse egli più emotivamente vuole mostrarci i suoi “idilli” nel senso dell’infinito leopardiano, che è pur denso di sottilissimi concetti. Ho tentato di spiegare. Ma avrei voluto scrivere – come seguendo il ritmo del telegrafo, punto-linea-punto, così simile ai tagli e alla tecnica pittorica di Bonicatti – avrei voluto scrivere un’intera pagina di equivalenze verbali, più o meno di questo tenore: cielo – terra – acqua. Acqua – terra – cielo. Cielo – terra. Terra – acqua. Acqua – acqua. Cielo – cielo. Terra gialla – terra marrone – colli sfumati all’orizzonte – cielo. Cielo – cielo – terra – acqua – terra – acqua – terra. Così, per un’intera pagina di presentazione.

Forse ogni equivoco, ogni dubbio sarebbe stato dissolto, forse la parola sarebbe stata fedele all’immagine.

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