MARIA TERESA BENEDETTI
Intervista a cura di Mariaimma Gozzi
Nell’intervista la Professoressa ribadisce la sua stima e la sua amicizia per Corrado
Benvenuta dott.ssa Maria Teresa Benedetti, la ringrazio di aver accettato la mia intervista, per me che ammiro da sempre il suo stile, è un autentico piacere.
La sua scrittura è estremamente elegante, lirica, enfatica, pervasa di un chiarore “espressivo” pulito, misurato. E incanta il modo in cui coglie tutte le sfumature dall’arte per narrarla. Lei dà voce all’opera e all’artista mappando il percorso interiore, esteriore e mentale. Ma, attraverso quali letture, quali opere, e quali stati d’animo si arriva ad essere come lei? E quali sono stati i suoi maestri?
Praticando fin da adolescente la letteratura, la poesia e gli scritti d’arte. Il gusto per la bella pagina nasce dal desiderio di comunicare accenti sottili della coscienza, costituendo un dialogo che risulta prezioso per chi lo realizza e si spera anche per chi legge.
I miei maestri sono stati per la letteratura Natalino Sapegno, mio professore all’Università, e in particolare la sua “storia di un’anima” dedicata a Leopardi amata fin dal liceo e per la poesia Eugenio Montale, in particolare gli Ossi di Seppia di cui mia madre laureatesi nel 1924 possedeva una copia della prima edizione. Per la Storia dell’Arte ho avuto la gioia di seguire l’insegnamento di Lionello Venturi tornato dopo la guerra dall’esilio americano e pieno di una serenità d’insegnante dolce e sapiente.
Da lui ho imparato ad amare Caravaggio e soprattutto gli Impressionisti criticamente indagati fin dalla giovinezza, con il risultato di divenire il più importante studioso internazionale del movimento. A questo si è aggiunto l’amore per i romanzieri russi, da Tolstoj a Dostoevskij. E poi Dante, lettura inizialmente complessa, amata in seguito per lunga abitudine. Sono grata a Vittorio Sermonti che ne ha diffuso una lettura alta e a Roberto Benigni che lo ha avvicinato al grande pubblico e mi rammarico che la nostra lingua sia continuamente alterata da neologismi frettolosi, da intrusioni straniere diventate d’uso corrente. Ricordo il disdegno di Paola Masino, mia antica amica attica e bontempelliana, per le deformazioni della nostra lingua, allora più tollerante in parte la contestavo ma ora le do completamente ragione.
“Il soffermarsi è la forma temporale dell’esperienza dell’arte”: vale per l’artista e per chi fruisce dell’opera; “quando un’opera ci raggiunge, non si tratta più di un oggetto che ci sta di fronte – dice l’autore di Verità e metodo, Hans Georg Gadamer. Ci assesta un colpo, ci capovolge, costituendo un suo mondo in cui veniamo per così dire coinvolti”, con buona pace di Jacques Derrida e della sua decostruzione. Ecco, qual è la sua concezione dell’arte?
L’arte è la possibilità di comunicarci attraverso immagini l’universale. Rappresenta un tessuto di solidarietà, anche umana, sempre fortissima, da me avvertita soprattutto nell’insegnamento, che devo confessare, rappresenta forse l’esperienza più importante della mia vita.
La Sua indagine di storico dell’arte s’invaghisce della cultura europea del secondo Ottocento e del primo Novecento. Il fascino dei movimenti artistici e degli accadimenti storici avvenuti in questo lasso di tempo è irrimediabilmente travolgente. A Lei, cosa l’ha sedotta di questa produzione storica?
L’avvertire l’esigenza di mutamento che serpeggia nell’arte europea del secondo Ottocento in modi diversi ma sempre presente, il cogliere segni vistosi di modernità nei tardi pastelli di Degas, anticipatori di grandi libertà, nel reinventare la tradizione, adeguandosi al proprio tempo, come ha fatto Manet, nel cogliere l’attimo con la determinazione feroce che ha guidato l’esperienza di Monet, nella passione di alcuni artisti inglesi da Turner a Rossetti, a Burne-Jones per l’arte e la cultura del nostro paese, nell’aspirare a cogliere il vortice dei tempi nuovi nel futurismo di Boccioni, tanto per citare qualche esempio.
Nel gergo filosofico le domande sul bello rientrano ormai nell’ontologia dell’arte, ed è lontano il tempo in cui Kant, nella terza Critica, definì “estetico” il giudizio “sul bello e il sublime”. Dell’arte, in verità, la filosofia si occupa da sempre: per svalutarla (Platone); apprezzarla (Aristotele); annunciarne la morte (Hegel), ribadirne “l’autonomia” (Adorno). Ma oggi? Che valore si dà oggi all’arte?
Oggi all’arte si dà soprattutto il valore di un’indagine intellettuale che scarnifica o distrugge il rapporto, ritenuto deviante, con l’immagine ma è dominata dalla capacità di immergersi nel rigore di un assoluto mentale.
Alcune domande attraversano la mente: da cosa è dato il valore specifico di un’opera? Lo decidono gli esperti, le circostanze storiche, il gusto di un determinato pubblico (quale?), il trend dell’investimento in opere d’arte, gli interessi e il denaro che – non da oggi – il mercato porta con sé?
Oggi siamo dominati dal mercato che è capace di scegliere la qualità ma anche di determinare un successo che potrà essere ridiscusso e rivisto da quelli che verranno.
Là dove un tempo si ergevano muri a confine di un genere – demonizzando il classico ed esaltando l’astrazione delle correnti avanguardiste per giungere fino alle degradazioni del concettuale – oggi finalmente non v’è più traccia di quella crisi e giunge salvifica l’interazione. Eppure, noti critici hanno conclamato la morte dell’arte quando è avvenuta la muta delle interazioni. Lei cosa ne pensa?
Penso alla testa magnifica di Giulio Carlo Argan che amava soprattutto il pensiero e che ha determinato una direzione da lui praticata con estremo rigore e purezza e che non sempre è stata seguita con analoga grandiosa intenzione.
L’onirico, l’irreale, il rarefatto tutto ciò che riguarda il sogno, dal punto di vista psicanalitico è affascinante, ed è luogo della sua indagine: dal Simbolismo, al Surrealismo; dalla Metafisica all’Astrattismo. Insinuarsi nella sfera identitaria di una certa pittura e di un certo artista e coglierne il carattere attraverso i simboli significanti è forse il momento più coinvolgente. Ma c’è uno di questi simboli che si è annodato alla sua interiorità?
Penso al destino di Capogrossi, componente di tutto rispetto della triade dei grandi astrattisti del nostro dopoguerra, da lui a Burri a Fontana. La sua figura è rimasta in ombra ma riesce a commuovermi la fedeltà al suo segno, ora affastellato ora disteso, cui è giunto sicuramente in modo drammatico dopo una presenza non trascurabile nel percorso della “Scuola Romana”.
“Abusus non tollit usum” (l’abuso non vieta l’uso) espressione giuridica dell’antico diritto romano. Ma qual è l’abuso nel mondo dell’arte?
Un artista si distingue da chi non lo è proprio nel saper rendere l’abuso necessario e nell’imporlo come valore.
A proposito di abuso come valore. Nell’arte contemporanea il desiderio di stupire è spesso soverchiante e quelle trovate estemporanee d’inquietudine esistenziale, per certi versi, ci hanno stancato. Questo significa che siamo diventati più raffinati ed esigenti o più cinici come sintomo di un malessere socio-culturale?
Purtroppo tutto vive, si afferma, si consuma, si esaurisce. Ho la sensazione che si avvertano oggi segnali di saturazione, di disagio. Spetta agli artisti l’assoluta fedeltà al proprio linguaggio interiore perché si possa alzare una barriera contro ciò che inevitabilmente è destinato a consumarsi ed annientarsi. La divulgazione massiccia del nostro tempo certo non aiuta.
Il rischio esiste ed anche la possibilità di essere travolti. Sicuramente ci sarà chi saprà resistere e continuare a tessere la trama della storia.
Si è conclusa da pochi giorni la retrospettiva dedicata a Bonicatti (Visioni), curata da Lei e da Raffaella Bozzini alla galleria Edieuropa Arte Contemporanea. Trovarsi di fronte alle opere dell’artista è stata per me un abluzione spirituale, in cui il richiamo al non visibile, all’immaginifico, con le impalpabili e galleggianti architetture che sorgono dal vuoto, più che desolanti, danno l’impressione di illusorie oasi irraggiungibili. Ecco, a voi curatrici cosa ha lasciato questa retrospettiva?
Bonicatti è morto drammaticamente ed era per me un amico. L’ho conosciuto molto tempo fa come pittore di paesaggio, l’ho ritrovato strenuamente determinato ad escludere tutto ciò che non fosse penetrazione nell’indicibile, una sorta di porta dell’anima che guida anche se invano verso l’irraggiungibile.
La Sua forza è anche quella di essersi sempre aperta alle giovani generazioni segno di grande sensibilità e di modernità. Infatti, anche nell’ultima mostra ha collaborato, come detto, con Raffaella Bozzini. Cosa le piace di queste collaborazioni e cosa le hanno consegnato nel tempo?
Dove vedo la determinazione nel sacrificio, nella ricerca, nell’aspirazione a combattere per cogliere una scintilla luminosa, soprattutto nei giovani, mi commuovo e aderisco con gioia.
La sua vita professionale, di alto profilo, ci indica qual è lo stile da seguire se si vuole raggiungere obiettivi elevati. Ma, come donna, quanto è stato difficile affermarsi? E se c’è stato un attimo in cui ha pensato di fermarsi cosa l’ha convinta a non farlo? Infine vorrei chiederle: ha già un altro progetto da realizzare? E se è si, può darci qualche anteprima?
Sono stata sempre mossa dal piacere di lavorare su ciò che mi nutre e interessa, non vorrei mai smettere e lo farò finché ne avrò le forze. Attualmente sto lavorando al progetto di una mostra su Degas che in tempi di COVID-19 non è esenta da difficoltà. È la seconda volta che mi avvicino a questo artista dopo aver curato una sua mostra nel 2004 e scopro solo ora il fascino di una maturità drammatica, sospesa tra vecchiaia e cecità, nella quale l’artista sa dare un’anticipazione inquieta di folgorante modernità.
Vorrei congedarmi da Lei, con una sua riflessione che incanta, la descrizione del pittore Bonicatti: “Dipinge in una stanza chiara, invaso dalla luce, la stessa che inonda le sue tele, ricche di finezze cromatiche e fluidità di riflessi, nelle cui vaste superfici si concentra un senso epifanico e insieme pudico della bellezza. Insegue una visione semplificata con passione ed energia, sublima notazioni naturalistiche nella parte inferiore della tela, il resto è occupato da cieli spalancati, o reali, che rimandano una sorta di stupefazione metafisica. Il sentimento di una natura conosciuta dal vivo si trasforma in idea di natura, la ricognizione del paesaggio include una sfida fra sguardo e sentire, tra l’imparzialità dell’occhio e la soggettività della percezione emotiva.”
Da “Paesaggio come stato d’animo” di Maria Teresa Benedetti, monografia Bonicatti “Dialoghi di luce” 2009 – De Luca editori d’arte
Intervista a cura di Mariaimma Gozzi. per la rivista online “Il Progresso Magazine”
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